La sistemica e i gruppi: un’esperienza
- Produzione Webidoo
- 29 ago 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 30 ago 2022
Gianluca Ganda, psicologo, allievo del quarto anno della Scuola di Psicoterapia del Centro Milanese di Terapia Familiare.
(di Gianluca Ganda tratto da “Connessioni”, 2001, 9: 53-68)

Possiamo utilizzare l’approccio terapeutico sistemico nel lavoro con i gruppi?
La terapia della famiglia, unita alle idee cibernetiche, ha ricondotto il disagio dei membri di un nucleo alle relazioni, provando poi ad aiutarli a risolverlo o a trovare un modo migliore per stare insieme. Il disagio e la sua soluzione stanno all’interno della famiglia. Si può quindi considerare il contributo storico della terapia della famiglia come l’offerta di una maniera diversa di fare distinzioni: la delimitazione di un sintomo intorno a una famiglia anziché a un individuo”, (Keeney, 1985, p. 32). […].
L’impianto della sistemica è fatto salvo, comprese le domande circolari triadiche, se la terapia individuale è di tipo sistemico: con questa modalità terapeutica si cerca di conoscere “le relazioni con i sistemi significativi del cliente“, viene data attenzione alla “conversazione interna del cliente, alle sue premesse, pregiudizi e emozioni, alle relazioni tra il suo mondo interno e il suo mondo esterno“, (Boscolo, Bertrando, 1993, p. 57). Ci sono le stesse direttrici della terapia indirizzata alla famiglia, ma convergono sull’unico cliente del gruppo familiare presente in seduta.
[…] Umberta Telfner (2000) sottolinea come questa sia un’epistemologia in grado di dare “una visione del mondo e una prassi operativa che, mantenendo immutati gli elementi presi in considerazione, cambia il modo di assemblarli, offre nuove metafore e quindi nuove Gestalten, e ha permesso e permette di organizzare il sapere in forme differenti“.
[…] Il gruppo è un sistema.
Ci sono sei persone in una stanza. Qualcuno parla mentre altri ascoltano. Si incontrano una o due volte a settimana. Sempre nello stesso posto, alla stessa ora e per lo stesso tempo. Decidono delle regole da seguire. Nella stanza vivono le storie che queste persone si raccontano e, grazie a tutti questi elementi, si creano dei piccoli nodi che legano vicendevolmente tutti i presenti.
Un sistema. Il sistema è costituito dall’insieme delle persone, dalle loro relazioni reciproche e dalle relazioni con il contesto in cui si trovano. “Ciò che definiamo sistema non è che l’adattarsi vicendevole dei vari componenti. Adattamento diventa quindi una qualità estetica dell’interazione. Ciò che vediamo accadere non potrebbe non accadere” (Cecchin, 1998, p.114).
La conversazione ha una cornice, una chiusura, un dominio che implica la definizione di un contesto. Questo limite permette di differenziare questo processo comunicativo dagli altri perché proprio di un sistema organizzativamente coerente. Se nella stanza di terapia c’è una famiglia è facile pensare alle relazioni che la caratterizzano, a cui il tempo storico fa da contesto. La storia costruita dalla famiglia con il terapeuta segna il percorso della terapia e connette le persone fra loro.
Un gruppo presenta molte differenze rispetto a una famiglia, un gruppo di persone che esiste già prima di incontrarci e continuerà ad esistere dopo che noi siamo entrati in contatto con esso.
Il gruppo terapeutico non è un gruppo naturale come una famiglia; manca di relazioni già costituite e delle descrizioni che i membri ne fanno, la loro storia con i vissuti corrispondenti. Le persone che costruiscono il gruppo non hanno invece una storia comune. A loro manca anche un accordo su quali regole sono importanti per gestire la vita del gruppo.
La famiglia si pone il problema del comportamento di un suo membro che non rispetta più i criteri di accettabilità del sistema a cui appartiene.
Le domande del gruppo
Che domande si pone invece un gruppo? Quando decidono di incontrarsi le persone decidono e accettano di intrecciare le loro storie personali. Si preparano a realizzare il loro accoppiamento strutturale. Maturana e Varela (1987) sottolineano che l’interazione ripetuta, un accoppiamento strutturale fra individui, porta alla comunicazione, “la mutua induzione di comportamenti coordinati che si verifica fra i membri di una unità sociale” (p.167). Qualora le persone, in qualità di osservatori, siano chiamate a commentare questi comportamenti, fanno emergere “il significato di ciò che l’osservatore può vedere nei comportamenti” (op. cit., p. 177).
[…] Il lavoro con un gruppo può porsi obiettivi relativi all’osservazione sia di questo accoppiamento strutturale che dell’organizzazione che qualifica il sistema – gruppo come “unità” – mentre avviene l’adattamento, con una sensibilità estetica che rende sensibili alle relazioni.
Il disagio del singolo può trovare spazio di ascolto in un contesto diverso dalla famiglia perché nel processo cibernetico di costruzione della patologia “due sono le parti in gioco […]: la cultura dominante, con i suoi miti, i suoi pregiudizi, le sue credenze che definiscono i criteri per distinguere il bello dal brutto, il sano dal malato […] e il singolo individuo che, in quanto appartenente a quella cultura, è soggetto alle sue implicazioni contraddittorie, ai doppi legami che ne derivano […]“, (Cecchin et al, 1993, p. 87).
Ma cosa succede quando le persone del gruppo confrontano i significati che danno ad un comportamento? Le persone pensano per storie e si raccontano attraverso esse. Il gruppo condivide le descrizioni semantiche e, grazie ai vincoli che definiscono il contesto della riunione, cerca di definire le relazioni tra le parti che osserva: cerca una connessione per tenere insieme le persone.
Il gruppo possiede le caratteristiche che Bateson individua nella “Mente”, aggregato di parti la cui interazione è attivata da confronti, dalla differenza. “Tale insieme eseguirà confronti, sarà cioè sensibile alla differenza: […] ‘elaborerà l’informazione’ e sarà inevitabilmente autocorrettivo” (Bateson, 1976, p.126). Il gruppo, “Mente”, cerca quindi di definire la struttura che connette. Questa “metastruttura” è il risultato del confronto di relazioni diverse. Bateson scrive: “nel mondo delle idee occorre una relazione, o tra due parti oppure tra una parte all’istante 1 e la stessa parte all’istante 2, per poter attivare una qualche componente che possiamo chiamare il ricevente. Ciò a cui il ricevente reagisce è una differenza o un cambiamento.” (Bateson, 1976, p.130).
[…] Nel capitolo “Versioni molteplici del mondo” Bateson (1984, p.93) fornisce numerosi esempi che tendono a dimostrare come due descrizioni, fra loro differenti, permettono, favoriscono e arricchiscono la costruzione del mondo. “Primo, due strutture qualsiasi, se combinate opportunamente possono generare una terza. Secondo, di queste tre strutture, due a caso potrebbero servire da base per descrivere le rimanenti. Terzo, attraverso questi fenomeni è possibile accostarsi a tutto i problema della definizione di ciò che si intende col termine struttura. Forse in realtà ci portiamo dietro anche noi (come il cieco il suo sonar) campioni di tipi diversi di regolarità con cui confrontare le informazioni (notizie di differenze regolari) che arrivano all’esterno? Usiamo, per esempio, le nostre abitudini di quelle che si chiamano ‘dipendenze’ per saggiare le caratteristiche di altre persone?” (Bateson, op. cit., p.112).
Vediamo così come il confronto di due descrizioni generi e favorisca la condizione per una terza. Questo processo permette poi di far emergere i pregiudizi (il sonar personale) e mette ogni persona di fronte al limite della propria esperienza cosciente.
Come Bateson ha più volte sottolineato, le descrizioni del mondo sono riflessivamente collegate alle mappe cognitive di una persona. Ciascuno ha un’esperienza soggettiva delle proprie relazioni che si conoscono non come “cosa in sé” bensì come risultato di un processo di elaborazione della mente. La descrizione, operata nel linguaggio, si presta poi per rendere solo un aspetto della relazione.
[…] Questa caratteristica della conoscenza dell’esperienza, soggettiva e lineare, viene usata per permettere ai membri di introdurre nuove versioni di una storia, anch’ esse soggettive e forse lineari. Il singolo viene così accompagnato a prendere visione di numerosi “film” della propria storia, plausibili se vengono intesi come tasselli di una esperienza più ampia: la relazione ricorsiva in un contesto. Il gruppo, quando accetta la possibilità di creare descrizioni e le accoglie, accetta che i punti di vista dei singoli non siano in antitesi, simmetrici ed escludentisi, bensì complementari. Il gruppo, sistema, Mente, vive così del processo circolare ricorsivo che unisce gli elementi come parti integranti.
Il singolo, dal canto suo, ha la possibilità di cogliere una diversa definizione di sé stesso, derivante dall’intreccio fra sé e gli altri. Si ridefinisce come parte di un circuito più ampio, nel qui e ora del gruppo e in tutti gli altri gruppi di cui è parte. Bateson dice che “l’io è una falsa reificazione di una parte impropriamente delimitata di questo assai più vasto campo di processi interconnesso. La cibernetica riconosce anche che due o più persone (un gruppo qualunque di persone) possono formare insieme un sistema pensante e agente di quel tipo” (Bateson, 1976, p. 366). […]
L’autoreferenza
Le descrizioni che permettono di cogliere l’aspetto circolare più ampio del sistema sono arbitrarie e nell’ arbitrarietà appare l’individualità della persona e la sua coerenza con un contesto. Ma ognuno effettua una scelta particolare nell’ accettare l’una o l’altra descrizione, per cercare di rispettare l’adattamento con il sistema. Se “la sequenza d’interscambio che si sviluppa tra due persone (viene) strutturata soltanto dalle percezioni che la persona stessa ha della sequenza, (viene strutturata) dall’Apprendimento 2 già esistente in quella persona” (Bateson, 1976, p.327).
La distinzione Io-Altro non è più simmetrica, non è neppure scontata, è una distinzione operata da una scelta, che può comportare anche l’abbandono delle premesse che autoconvalidano il sistema. “L’io dunque è un prodotto aggregato dell’Apprendimento 2. Nella misura in cui un uomo consegue l’Apprendimento 3 e impara a percepire e ad agire in termini dei contesti dei contesti, il suo “io” assumerà una sorta di irrilevanza“(Bateson, 1976, p.333). Le categorie dell’Apprendimento 2 scoppiano quando “la creatura è spinta al livello 3 dai “contrari” generati al livello 2” (Bateson, 1976, p.335).
Appare innegabile l’influsso del contesto sociale nella costruzione delle idee che, mediate dal linguaggio, si originano nell’interscambio sociale. I comportamenti interpersonali sono allora considerati “funzione dei significati che l’individuo agente attribuisce a ciò che gli altri fanno” (Fruggeri, 1998a, p.56) e le operazioni conoscitive dell’osservatore “possono essere indagate soltanto nell’intreccio con le dinamiche sociali a cui partecipa” (Fruggeri, 1998a, p.60). Per Fruggeri il terapeuta si assume la responsabilità di coordinare queste operazioni con l’autoreferenzialità, propria del singolo e del contesto, e la non istruttività delle relazioni. (op. cit., 1998a).
Pirsig (1981) descrive così questo processo: “ciò che garantisce l’oggettività del mondo in cui viviamo è il fatto che lo condividiamo con altri esseri pensanti. Comunicando con gli altri ne riceviamo ragionamenti armoniosi in cui riconosciamo, grazie alla loro armonia, l’opera di esseri ragionevoli come noi. E dato che questi ragionamenti combaciano col mondo delle nostre sensazioni, pensiamo di poterne dedurre che questi esseri ragionevoli vedono le stesse cose che vediamo noi […]. È questa armonia […] l’unico fondamento dell’unica realtà che ci sia mai dato di conoscere” (Pirsig, 1981, p. 263).
La responsabilità dell’individuo si costituisce e si esplica attraverso il trascendere il binomio Io-Altro, binomio complementare e non dualistico. “se non c’è l’altro non ci sarà l’io. Se non c’è l’io non c’è nessuno a fare distinzioni” sosteneva Chuang-Tzu (in Watts, 1977, p.67).
Il terapeuta può allora favorire la costruzione di realtà condivise dai membri di un gruppo. E nel fare questo deve tener presente che “ogni individuo è un sistema complesso entro sistemi complessi, tra i quali la famiglia emerge certamente come primaria e nodale, ma non esaurisce quelle “altre” appartenenze che contribuiscono a generare e mantenere i problemi; appartenenze che si traducono per ogni soggetto in vissuti relazionali stratificati e in identità molteplici” (Castagna, Formenti, Piloni, 1999, p. 51). La connotazione positiva, la possibilità che ognuno esprima le proprie idee senza che esse siano criticate, annullate o svilite permette che le trame descrittive di una persona si affianchino a quelle delle altre. Si realizza un processo per trovare una mediazione tra nuove modalità di relazione che emergono dall’interazione, negoziazione, nel sistema gruppo e negli altri sistemi con i criteri che ogni individuo si dà per mantenere una propria coerenza interna. Un processo dove “il doppio livello della costruzione individuale e quello della co-costruzione […] sono distinti ma embricati. [Nel primo] ogni partecipante inizia un rapporto e agisce in esso secondo il principio dell’autoconvalida tra premesse e comportamenti” (Fruggeri, 1998b, p. 43). Nel secondo “essi negoziano anche i significati da attribuire a eventi e comportamenti, costruiscono identità individuali e collettive, definiscono ruoli e relazioni, sviluppano un modo specifico di organizzare la realtà” (op. cit., p.42).
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