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VIKTOR EMIL FRANKL: “Uno Psicologo nei Lager”

  • Immagine del redattore: Produzione Webidoo
    Produzione Webidoo
  • 30 ago 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

In questi giorni, dovendo risistemare carte e documenti, ho ritrovato dei vecchi appunti che risalgono ancora al mio periodo universitario di parecchio tempo fa. Tra le varie “scartoffie”, ho ritrovato un brevissimo scritto riferito a Viktor Emil Frankl che, magari, a molti dice poco o niente, ma che ha vissuto un’esperienza davvero traumatica e sconvolgente di cui vi dirò. Ho deciso di pubblicarlo perché ci ho trovato, con le dovute proporzioni, una forte analogia con quello che abbiamo e stiamo ancora vivendo rispetto all’esperienza COVID-19. Per molti, la realtà di questi ultimi mesi può essere sembrata una sorta di lager con parole spesso ricorrenti, quali la limitazione della nostra libertà e la questione degli spazi, la tristezza ed a volte anche la disperazione, il disagio, la sofferenza. A tutto ciò, sono stati spesso contrapposti concetti quali la nostra resilienza e la capacità di porre in essere efficaci strategie di coping per vivere o sopravvivere agli eventi contingenti. Credo che riproporre alcune esperienze possa essere di aiuto e di supporto per noi tutti e, attraverso un messaggio di speranza, attivare le nostre risorse e capacità.


Viktor Emil Frankl (Vienna, 26 marzo 1905 – Vienna, 2 settembre 1997) è stato un neurologo e psichiatra austriaco, discepolo, molto apprezzato, in un primo tempo, di Freud e Adler e fondatore della Logoterapia, che è una forma di “analisi esistenziale“, e viene definita la “Terza Scuola Viennese di Psicoterapia” per distinguerla, appunto dalla prima di Freud e dalla seconda di Adler. Seppur è nata sotto l’influsso delle scuole precedenti, se ne differenzia ben presto perché si focalizza e cerca di rispondere al problema principale del XX secolo e, cioè, al sentimento della mancanza di senso che sembra essere tratto comune per molti individui. In estrema sintesi, la Logoterapia può essere definita come un approccio psicoterapeutico che si pone, come obiettivo primario, la riscoperta del significato (logos) dell’esistenza dell’essere umano.


Dal 1942 al 1945, Frankl fu prigioniero in quattro campi di concentramento nazisti, tra cui Auschwitz e Dachau e, a partire da questa drammatica esperienza di deportazione e di privazione della propria libertà, scrisse i volumi “Uno psicologo nei lager”,“Alla ricerca di un significato della vita” e “I fondamenti spirituali della logoterapia”. A lui si deve la definizione di nevrosi noogena, concezione secondo la quale l’equilibrio psichico dipende dalla percezione significativa del sé e del proprio vissuto. Cioè, quando l’individuo non si sente “significativo”, cerca una sorta di compensazione, o in gratificazioni artificiali (droghe chimiche e psichiche), o in atteggiamenti di potenza (comportamenti distruttivi ed autodistruttivi).


«Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve essere; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è.»

(da “Homo patiens. Soffrire con dignità”, a cura di E. Fizzotti, Queriniana, Brescia, 2007.)


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La sua esperienza nei lager fu terribile: viene colpito dal tifo petecchiale che lo riduce in fin di vita ma, proprio durante questa esperienza, nasce la sua intuizione più matura e cioè l’importanza della “ricerca di senso” nel proprio vissuto. Egli definisce tale concetto come “autotrascendenza”, una intrinseca attitudine propria dell’uomo, ed attribuisce a ciò la capacità di oggettivare il dolore fisico e di superare le sofferenze in vista di un futuro migliore. Frankl è un uomo che, per tutta la sua vita, ha sempre portato avanti una idea sempre positiva e di speranza nell’uomo e nelle sue capacità, anche di fronte agli eventi più tragici. Basti pensare che il padre gli muore tra le braccia e che, fino alla metà del 1945 non avrà più notizie della madre e dell’amata Tilly, sua moglie, perché separato da loro durante i lunghi anni della deportazione. Il suo desiderio più grande, in quegli anni, era di riuscire a riabbracciare la sua sposa che, credendo che il marito fosse stato internato in un campo di lavoro e non in un lager, aveva richiesto esplicitamente di essere deportata con lui. Purtroppo, dopo lunghe ricerche, scopre la morte di entrambe e su questo, scrive delle toccanti parole che ben descrivono la propria sofferenza: «Guai a chi non si ritrova l’unico suo sostegno del tempo trascorso nel lager – la creatura amata. Guai a chi vive nella realtà l’attimo del quale ha sognato nei mille sogni della nostalgia, ma diverso, profondamente diverso da come se l’era dipinto. Sale sul tram, va verso la casa che per anni ha visto davanti a sé nei pensieri e solo nei pensieri, suona il campanello – proprio come lo ha desiderato ardentemente in mille sogni… ma non gli apre la persona che avrebbe dovuto aprirgli – e non gli aprirà mai più la porta.»

(da “Uno psicologo nei lager”, Edizioni Ares, Milano, 2007.)


Mi sembra giusto ricordare e sottolineare che il libro “Uno psicologo nei lager”, seppure scritto davvero tantissimo tempo fa, mantiene intatta una sua attualità dirompente e rappresenta una lettura di grande valore. Tradotto in tutto il mondo con oltre 10 milioni di copie vendute, è stato dichiarato per quattro volte libro dell’anno dalle università degli Stati Uniti.

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Dott. Fabio Garzara


Dottore in Psicologia clinica e Psicoterapeuta
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